Il rapporto che abbiamo con il cibo rimanda a qualcosa che va ben oltre il puro algoritmo matematico del conteggio calorico o il mero bilancio tra i diversi nutrienti.
Da un lato, infatti, gli alimenti non sono solo aggregati chimici, ma portatori di un’informazione energetica più profonda, legata alla natura, alle caratteristiche e alle proprietà dell’alimento stesso. Quello che voglio dire è che, al di là del valore calorico, un tubero che cresce sotto terra ha una valore funzionale, un impatto energetico ben diverso da un vegetale a foglia che si apre verso l’esterno, crescendo esposto al sole, al vento e alle piogge.
Dall’altro lato, tutto questo acquista un preciso significato in relazione all’individuo che metabolizza quel certo alimento: ogni prodotto determinerà un impatto preciso sul temperamento e la personalità dello specifico soggetto, perché le sue caratteristiche gli permettono di metabolizzarlo in un quel certo modo, che sarà diverso da come invece assimila quello stesso alimento un soggetto a costituzione diversa.
Insomma quella tra cibo e personalità è una relazione molto stretta, specifica e unica per ogni individuo, esattamente come è la nostra individualità e il modo in cui ci rapportiamo e facciamo sintesi metabolica del mondo.
Fatta questa doverosa premessa, non solo gli alimenti che scegliamo, ma anche la modalità con la quale ci nutriamo ha un impatto sul metabolismo energetico: ingozzarsi o mangiare con calma non potranno mai produrre lo stesso effetto sull’unità psicofisica che si alimenta, anche a parità di quantità e qualità di cibo ingerito. È infatti evidente che nel modo di mangiare entrano in gioco componenti emozionali di natura molto profonda, che rimandano al primissimo legame con la figura materna che provvedeva al nostro sostentamento. Prima attraverso il calore del latte materno e il contatto con la mammella, poi attraverso mezzi “artificiali” che, comunque, si associano a condotte, sensazioni, emozioni che determinano un imprinting sul bambino.
Lo stato della mamma quando allatta o imbocca il bambino, le sue paure, ossessioni o gioie e divertimenti “nutrono” il bambino tanto quanto la pappa che gli somministra, a volte creando associazioni tra cibi ed emozioni che possono permanere indelebili nella memoria.
Il problema è: in quale memoria del bambino?
E qui viene il bello….entro i primi 2 anni di vita, e soprattutto nei primissimi mesi, il bambino sta ancora sviluppando le sue facoltà razionali di pensiero logico e di verbalizzazione. Il neonato o il bambino piccolo non hanno quel dialogo interno con il quale ”commentano” se quella pappa ha un odore odioso o invitante. I ricordi dei bambini nelle primissime fasi di vita, invece, passano attraverso il corpo, le sue sensazioni, percezioni e impressioni. Quelle memorie, quei ricordi del modo in cui era preso in braccio per essere imboccato o della sensazione provocata dalla mamma che sminuzzava finemente la carne, non sono verbalizzati. Quindi il bambino neanche da adulto potrà raccontarli (memoria dichiarativa o esplicita). Ma li esperirà come sensazioni fisiche (odori, sapori, modi di toccamento) capaci di innescare una certa impressione emotiva (memoria preverbale o implicita). E difficilmente da adulti sappiamo vedere questo collegamento, ma semplicemente ci troviamo a vivere certi stati (e già accorgersi di detti stati è un gran passo!) senza neanche accorgerci cosa li abbia provocati e come si siano innescati. Si tratta cioè di automatismi, di associazioni che si attivano al di fuori della nostra consapevolezza razionale, perchè mediati da meccanismi e processi principalmente corporei, instauratisi quando la capacità di pensiero e di racconto era ancora assente o immatura. Nella migliore delle ipotesi possiamo rivivere quei momento come immagini, ma non abbiamo quel ricordo razionale e verbalizzabile come quando ci chiedono di raccontare del nostro primo amore o cosa abbiamo fatto ieri.
Si tratta di file di archivio “nascosti” in un certo senso, ma che sono costantemente operativi perché si sono formati in quello che è uno degli atti fondamentali nei primi anni di vita, cioè il mangiare, al quale si connette strettamente il modo di vivere e ricercare il piacere.
As usual, quando si mettono in fila parole come cibo-emozioni-madre-affettività sembra che si sia autorizzati a parlare solo dei disturbi alimentari, ma in realtà questo gioco di fattori ci riguarda tutti, tanto nell’aspetto sano quanto nelle piccole “deviazioni” che ognuno di noi ha…e che possono rappresentare la punta di un iceberg sommerso altamente informativo!
Ed è stato mentre mettevo in ordine queste riflessioni che ho trovato dei recenti studi relativi ad una nuova area di ricerca, quella dello svezzamento naturale o autosvezzamento o svezzamento guidato dal bambino. Un po’ come accade per i cuccioli che lasciano in maniera indipendente il latte materno, così i bambini non vengono passivamente o forzatamente imboccati di pappine altamente selezionate. Piuttosto, il bimbo viene lasciato in modo che da solo scelga, afferri e porti con soddisfazione alla bocca gli alimenti (magari fatti a pezzettini, ma comunque nella loro forma naturale, e non in pappa) dalla stessa tavola dove tutti gli altri componenti della famiglia mangiano, esattamente come un cucciolo di animale esplora l’habitat a lui circostante. [Piccola nota di scrittura: mi chiedo perché si usi dire “avere il cervello in pappa”…forse il concetto di pappa andrebbe sul serio rivisto??].
Quello che volevo dire è che questi studi dimostrano che i bambini che hanno praticato lo svezzamento naturale sembrano avere da grandi degli stili alimentari più salutari e un miglior controllo del peso corporeo: hanno meno probabilità di essere sovrappeso e hanno una migliore percezione del senso di sazietà rispetto a quelli svezzati secondo il modello tradizionale.
È chiaro che questo modello potrebbe non essere applicabile a tutti i bambini, anche perché un’altra ricerca ha dimostrato che le mamme più favorevoli a questo nuovo approccio sono quelle con meno ansia e meno atteggiamenti ossessivi…
Mamme, sia chiaro che io di bambini non ci capisco niente, eh! Ma osservando i miei pazienti adulti che si esprimono sul loro modo di mangiare, mi sono accorta di non poter fare a meno di risalire a quelle che sono le prime esperienze dell’ infanzia con il cibo, inevitabilmente associate anche a certi modi e caratteristiche, affettive ma non solo, della figura materna. Le acquisizioni delle neuroscienze in termini di apprendimento e memoria implicita permettono oggi di descrivere anche la neurobiologia di questi percorsi.
Vabbè, da domani sarà più arduo per me mangiare in compagnia…😜