Leggiamo continuamente di nuove e promettenti ricerche su molecole e tecnologie destinate a rivoluzionare la medicina. Quello che i media non ci raccontano è quante di queste si rivelino poi fallimentari…e dei come e dei perché questo succeda. Questa tecnica è ovviamente molto efficace, per cui praticamente tutti i pazienti hanno in effetti la percezione che la medicina sia in costante evoluzione…ma buona parte della scienza che viene comunicata si rivela spesso essere una “montatura”.
Uno studio apparso nel 2003 sull’American Journal of Medicine ha valutato 101 studi pubblicati tra il 1979 e il 1983 che presentavano una nuova promettente terapia. Di queste, solo 5 sono state effettivamente commercializzate nei successivi 10 anni, e solo una (gli ACE inibitori) era ampiamente utilizzata al momento della pubblicazione. Gli autori concludono che le scoperte della ricerca di base raramente vengono traslate e adottate nella pratica clinica.
In questo articolo intitolato Ecco perché non dovremmo credere a quel nuovo promettente studio, che è in inglese e di cui riporto i passaggi salienti tradotti, viene proprio messa in evidenza la grande differenza che intercorre tra come i media presentano le “storie” scientifiche e come gli scienziati effettivamente le considerano. Troppo spesso ciò che promette il miracolo si rivela alla fine fallimentare. Ma questo non viene raccontato, o sicuramente non viene fatto con la stessa risonanza con la quale si era creata l’aspettativa.
Una delle espressioni maggiormente ricorrenti nei lavori scientifici è quella di “promettente scoperta” (promising findings), che oltre ad accendere gli entusiasmi, è anche in grado di attrarre tanto gli interessi di possibili finanziamenti quanto le probabilità di generare un circolo “virtuoso” (?) di pubblicazioni.
Secondo il servizio offerto dal British Medical Journal, volto ad orientare i clinici tra gli studi per capire cosa è realmente importante nella pratica clinica e come evitare tutto ciò che crea un “rumore di fondo”, dei 50.000 lavori scientifici pubblicati in media in un anno, solo 3.000 sono ben disegnati e sono rilevanti al punto da avere un impatto nella cura del paziente. Parliamo quindi del 6%.
Nella giungla della letteratura scientifica, la norma è che i singoli studi si contraddicano l’uno con l’altro, come accade ad esempio sui cibi che causano o prevengono il cancro. Per ogni cibo studiato, esistono dati tanto a favore quanto a sfavore (vedi figura del post). Il vino che oggi sembra aggiungere anni alla tua vita, la settimana dopo è il tuo killer numero uno. E questo è solo un esempio.
È importante sapere che i risultati di uno studio sono molto difficili da replicare, per tante ragioni, inclusa la difficoltà di ricreare condizioni sperimentali sovrapponibili, trovare soggetti con caratteristiche confrontabili, utilizzare una metodologia di lavoro omogenea, e così via.
I dati ci dicono che circa l’85% dei costi annuali sostenuti globalmente per finanziare la ricerca – pari a 200 bilioni di dollari – viene perso su studi mal disegnati o ridondanti.
Per essere concreti, solo una piccola frazione delle novità scientifiche porterà a qualcosa di realmente utile per gli esseri umani.
Viviamo in un’epoca di esplorazione scientifica senza precedenti. Tramite internet abbiamo tutto questo mondo di informazioni (che solo in minima parte significano anche conoscenza!) a portata di mano. Ma un aumento della quantità di informazioni significa anche più informazioni di cattiva qualità, e quindi la necessità di un maggior spirito critico.
Ma vi dico una cosa: il tempo per analizzare in maniera critica gli studi della propria disciplina oggi non ce l’ha praticamente (quasi) nessuno…
Siamo dentro un circuito che oscura quelle verità che la ricerca dovrebbe offrire.