La Diagnosi: risorsa o…
coperta di Linus?
La Parola può creare o distruggere. Una parola può creare inferni e distruggere paradisi. Una parola può generare mondi sublimi e spazzare via dolore e malattia. Perché le parole sono potenti, sia quando usate con l’altro che con se stessi, e questo lo sanno bene le antiche sapienze che dedicavano al corretto uso delle parole anche anni e anni di studio.
ABRACADABRA letteralmente significa creo quello che dico.
In virtù di queste considerazioni, ogni operatore della salute è chiamato a riflettere profondamente sulla responsabilità che lo investe in ogni singola parola che utilizza con i propri pazienti.
Da quando mi occupo di medicina naturale, vedo sotto tutt’altro occhio le diagnosi con cui spesso arrivano i pazienti. La diagnosi entra nello studio prima di loro. Quando si presentano, i primi minuti di conversazione suonano molto “distanti”, per non dire “metallici”. Una sfilza di tecnicismi sapientemente appresi spesso nei lunghi e travagliati ping-pong tra uno specialista e l’altro. “Perché la mia diagnosi è XYZ, quindi ho tutti i sintomi X e Y, certo strano che non ho quelli di tipo Z, ma ho quelli J che farebbero pensare ad un’altra malattia!”.
Dopo averli fatti scaricare un po’, in genere li guardo negli occhi e poi chiedo: “Ma tu, come ti senti?”.
L’esperienza soggettiva che le persone hanno dei propri sintomi va ricercata a volte con molta pazienza sotto strati e strati di “medicismi”, e allora lì le parole della persona cominciano finalmente a vibrare. E la musica cambia…
Diagnosi e download del pacchetto-dati
Quello che voglio dire è che la “diagnosi” diventa per la persona una sorta di ancora, una copertina di Linus spesso difficile da mollare perché…è una sicurezza!
Di certo è naturale che tutti desideriamo capire cosa abbiamo, tuttavia ci sentiamo rincuorati per il fatto di aver ricevuto un’etichetta che, oltre a non essere spesso così chiarificativa come si possa pensare, il più delle volte si trasforma in una bella gabbia dalla quale poi si fatica ad uscire.
L’etichetta della diagnosi (o tag, se preferite) porta con sé l’immediato download di tutto il programma connesso alla patologia dichiarata, con tanto di accettazione e sottoscrizione del contratto di licenza per l’utilizzo. Il programma che immediatamente scarichiamo e che diventa operativo è fatto di: tutti i più disparati sintomi che possono presentarsi, tutte le possibili terapie disponibili o non esistenti, le più variegate conseguenze sul piano relazionale-sociale e poi, ovviamente, la prognosi. Se consideriamo che la maggior parte delle patologie oggi ha un andamento cronico-invalidante, il suggello finale è immancabilmente: “Eh, ci dovrò fare i conti a vita…”. Cioè, si preclude già la possibilità della Guarigione, non prevista nella Licenza del pacchetto che avete sottoscritto…
Circuiti biologici in risonanza
In questo modo, la nostra testa costruisce un recinto che delimita in maniera molto netta il confine tra ciò che è possibile e legittimo, perchè coerente con la mia diagnosi, e ciò che è impossibile e non lecito, perché non previsto dall’etichetta stampata della diagnosi e dagli script del relativo programma, che ormai abbiamo installato e reso pienamente operativo.
Un programma operativo nel cervello corrisponde al condizionare anche le possibili risposte biologiche: se al primo disagio che provo subito ASSOCIO l’etichetta della DIAGNOSI (“Mi sento così perché sono affetta da XYZ”), scatta il programma che attiva TUTTI I CIRCUITI BIOLOGICI di quella malattia, perché la mente li sostiene attraverso le convinzioni e le aspettative che si hanno in relazione a quella diagnosi.
In altre parole, siamo noi stessi che diventiamo CO-CREATORI della nostra propria malattia.
In più, il tag della diagnosi diventa poi un ottimo contenitore della spazzatura di ogni ordine e grado, specie di quella emotiva: paura, angoscia, perdita della volontà, abbattimento, tutto viene relegato lì dentro perché possa essere così legittimato, agli occhi nostri in primis e a quelli di chi ci guarda da fuori poi. Anche se quella rabbia e quell’abbattimento affondano le radici da tutt’altra parte. Ecco, la diagnosi diventa un fulcro, un centro attrattore che facilmente classifica e inquadra vissuti altrimenti scomodo da gestire e affrontare. Tutto questo ha un prezzo ovviamente, quello della sofferenza sia psichica che fisica, perché il dolore che si sperimenta ala fine diventa pienamente reale.
La Diagnosi andrebbe…dimenticata!
Allora, sia ben chiaro che non sono contraria alla diagnosi in sé! La diagnosi in campo medico ha una sua utilità che è quella di classificare le patologie in base alla causa, quando nota, o in base ai sintomi, con lo scopo di creare un linguaggio condiviso nell’ambito scientifico, che possa permettere di fare ricerca e di individuare approcci terapeutici validi.
Ma una volta capita, la diagnosi dovrebbe essere poi dimenticata, almeno dal paziente! E non rimanergli attaccata come una zavorra.
Anziché chiedersi quali sintomi è lecito aspettarsi o quale sarà la prognosi peggiore possibile, non sarebbe più interessante capire cosa ha attivato dentro di noi quel sintomo e perché il corpo ha scelto proprio quel modo per comunicarcelo?
Una volta comprese le strategie che il corpo sta adottando per elaborare un problema psico—emotivo, a cosa serve avere un’etichetta diagnostica?
La Libertà dell’istinto
verso la Guarigione
La diagnosi è una parola che CREA, e più questa diagnosi è di moda (come la fibromialgia, tanto per dire una) e più potenti sono i mostri che genera nella persona, che si vede in un tunnel nel quale difficilmente troverà segnaletica per orientarsi…a meno ch, uno non decida di arredarselo! E anche questa è una scelta, ma che va a scapito del potenziale insito nella malattia stessa. Se evitiamo di entrare nel tunnel, scopriremo l’infinito potenziale di risorse che abbiamo a disposizione non solo per affrontare la malattia, ma anche per la successiva evoluzione. Un purosangue tenuto con i paraocchi in un recinto ha certo meno possibilità di uno lasciato libero di esplorare l’ambiente seguendo il ritmo del suo istinto naturale.
Scegliamo con molta cura le parole con cui raccontiamo a noi stessi e agli altri la nostra “malattia”, perché ogni parola si imprime nel corpo. E questo è ancora più vero per le parole di Guarigione.
Se mettessimo la stessa tenacia che usiamo nel rinforzare a malattia a sostegno di parole e pensieri di Guarigione, sarebbe sempre più evidente che i Miracoli appartengono già a questa dimensione umana.