Quando racconto come funzionano abitudini, automatismi e condizionamenti che ci tolgono la piena libertà del nostro potenziale, inevitabilmente la domanda che scatta è sempre la stessa: “E come faccio con quest’abitudine che si è sviluppata con me sin dall’infanzia e quindi è profondamente radicata?”.
Se non cambiate e non diventate come i bambini,
non entrerete nel regno dei cieli.
Al di là delle diverse tecniche e metodiche che vengono proposte, vorrei fare una considerazione sul modo in cui di solito tendiamo a farci questa domanda e sulla forma mentis che indossiamo per affrontare il tema della trasformazione delle abitudini e delle convinzioni di pensiero, di sentimento e di azione.
Credo che l’atteggiamento interiore con cui ci avviciniamo alla questione sia più importante dello specifico arnese a cui poi ricorriamo per smontare le nostre impalcature.
Se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.
Tante volte ho riflettuto su questa frase, e le considerazioni che viaggiano in questi giorni di lavoro più intenso sulla relazione bambino-adulto hanno portato un nuovo raggio di luce.
Siamo noi a dover imparare dai bambini
Una delle cose più “difficili” da riconoscere è che un bambino nella sostanza non va tanto “allenato” per lo sviluppo del potenziale, quanto piuttosto lasciato libero di esplorare, conoscere attraverso il gioco e realizzare il potenziale che ha già a pieno nelle proprie mani, riducendo al minimo le interferenze esterne che possono corrompere la naturalezza di questo processo di conoscenza della propria autenticità.
Eppure la tentazione di traslare subito sul bambino quello che noi stiamo cercando di imparare a fare oggi da adulti è sempre forte e in agguato.
Più difficile è fare il contrario, anche se a parole lo ripetiamo molto spesso: siamo noi a dover imparare dai bambini.
Che cosa dobbiamo imparare? Proprio la forma mentis di cui si diceva sopra.
Inevitabile…come imparare a camminare…
Guardiamo un bambino che gattona e che sta incominciando a muovere i primi passi: gli date forse delle istruzioni per imparare a stare dritto sulle sue gambe e a mettere un piede dopo l’altro? Magari lo tenete per le mani, e certamente lo incoraggiate a voce, ma un bambino di 10-12 mesi non sta certo decodificando le parole dell’adulto per ricevere istruzioni su come camminare.
Lo impara facendo. Cade e si rialza. Ricade e si rialza. E di nuovo riprova. Quello dell’imparare a camminare è un atto così naturale che nessuno penserebbe alle prime cadute che il bambino non sia capace. Nessuno attorno lo mortifica, né il bimbo può nutrire dubbi su di sé, perché tutto si svolge nella piena convinzione che il camminare da soli sia un processo che, prima o dopo, non possa non avvenire. È inevitabile.
Sapendo che è qualcosa di inevitabile, non esiste la possibilità di abbandonare il proprio obiettivo o di pensare di non essere in grado di raggiungerlo.
Se un bambino potesse raccontarci a parole tutto quello che sente e vive in questo processo di apprendimento, probabilmente resteremmo sconvolti. Lo diamo così per scontato e naturale che aspettiamo solo il momento di questo fatidico traguardo, ma non pensiamo mai a come questo possa essere vissuto visto dall’interno di una creatura di neanche un anno di vita. Cosa ci direbbe un bambino che gattona quando si trova davanti agli adulti che si aspettano che finalmente si metta in piedi su “due zampe”? Pensa forse che sia un’impresa titanica? Non lo so, verosimilmente direi di no, anche se per certi versi lo è…
Nei panni di un bambino che gattona
Ma il bello è che una volta che si è messo dritto in piedi, la storia non è mica finita, anzi è appena agli inizi!
Il bimbo che gattona sa tutto quello che lo aspetta? Riflette sulle innumerevoli acquisizioni e sfide che dovrà affrontare? Si scoraggia pensando che, una volta messosi dritto in piedi, lo aspetta il confronto con tutto il mondo del cibo, dei nuovi amichetti da conoscere, le maestre dell’asilo, i numeri, le lettere…se ci mettessimo veramente nei panni di un bambino, potremmo uscirne pazzi. Pazzi se usiamo le nostre categorie da adulti. Se le abbandoniamo, si svelano passo dopo passo le meravigliose conquiste della vita che compie un bambino.
Ma da un certo punto in poi, queste meravigliose conquiste diventano pesanti fardelli. Spesso ci si ferma, pensando che il gioco sia in effetti terminato. Spesso ci si chiede quando si potrà stare un po’ “tranquilli” e godersi il panorama. Altre volte puntiamo un traguardo, e quando lo raggiungiamo vediamo che non era il punto di svolta che pensavamo, e che più oltre c’è un’altra cima da raggiungere…e pensiamo: “Ma allora, non si arriva mai?”.
Pensate al bimbo che gattona: può forse pensare che una volta in piedi si potrà finalmente “rilassare”? Crede che una volta in piedi il “grosso” sia fatto e buonanotte ai suonatori?
Lasciate che i bambini vengano a me,
perché di essi è il Regno dei Cieli.
Gesù chiamò un bambino, lo mise in mezzo a loro e disse: «Se non cambiate e non diventate come bambini, non entrerete mai nel Regno dei Cieli. Perciò, chi si fa piccolo al livello di un bambino, è il maggiore nel Regno dei Cieli. E chi accoglie un bambino come questo nel mio nome, accoglie me. Ma se qualcuno di voi, con le sue azioni, ostacola la fede di uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui avere una macina da mulino legata al collo ed essere gettato in mare! (Mt 18, 2-7).
Lasciate che i bambini vengano a me, perché di essi è il Regno dei Cieli.
Tutte le potenzialità che sono insite in noi hanno la stessa naturalezza di sviluppo che ha per un bambino l’imparare a camminare.
Non disturbiamoci mentre lo stiamo facendo.