Eh già, niente di più semplice. In apparenza.
Perché se sembra così ovvio condividerlo, non è altrettanto scontato e automatico rispettarlo, questo “comandamento”. Perché molto spesso siamo noi i primi ad infrangerlo. E neanche ce ne accorgiamo.
Ma come può essere possibile?
Succede che ognuno di noi ha quel proprio specifico “punto” nel quale si sente profondamente ferito: per qualcuno può essere il tradimento, di un partner o di un amico. Per altri può trattarsi della perdita del proprio “onore”, magari in ambito professionale o sociale, in senso lato. Insomma, ogni persona ha quel punto sul quale proprio non vuole essere toccato, e fino alla morte è pronto a giurare che mai riserverà quel tale atteggiamento o comportamento agli altri. “Ma come, ti pare che proprio io, che non sopporto questo, possa essere in grado di farlo a qualcun altro?”.
Ecco, solo una riprova di quanto a volte siamo ciechi con noi stessi.
Quel particolare punto dove veniamo profondamente colpiti corrisponde ad un’antica ferita, apertasi magari nei primissimi periodi di vita nell’ambito delle prime relazioni affettive familiari. Una ferita che non necessariamente deve essere immaginata come un “trauma” o uno “shock” subìto, ma molto più semplicemente può trattarsi di un piccolo fatto quotidiano che da bambini però, non abbiamo archiviato correttamente nelle nostre memorie…un po’ come quando il computer si impalla nel momento in cui state salvando un file…probabilmente con quel file tornerete ad avere problemi in futuro (cosa che gli esperti IT sanno spiegare molto bene, io un po’ meno…). E il fatto che l’etichetta attribuita a quel contenuto sia “amore”, “amicizia”, “onore”, “rispetto”, determinerà il tema con il quale nella vita avremo più facilità ad andare in “tilt”. Già, perché a quel banale e innocuo momento di “tilt” era comunque associato un carico emotivo, che rimane così come un “pacchetto energetico” attivo…e che da qualche parte dovrà pure scaricarsi, seguendo i percorsi naturali dell’energia e non delle nostre morali acquisite. Proprio come quando un fulmine scarica a terra, lo fa indistintamente nel mezzo del mare come nel bosco o su una casa abitata.
Fuori di metafora, questo significa che quello che noi abbiamo vissuto come una prima ferita, genera una tensione emotiva di cui la maggior parte delle volte non ci rendiamo conto, che è però sempre operativa. In sostanza cerchiamo quelle situazioni nella quale il nostro “fulmine” interno possa scaricarsi a terra. Caso vuole che queste situazioni saranno proprio relative a quel “tema” che ha innescato questa tensione. Il risultato finale è che dopo una serie ripetuta di “ferite” riportate, cerchiamo situazioni analoghe nelle quali, però, il gioco si inverte: siamo noi a “ferire” gli altri per far capire, in una sorta di gioco sadomasochista, cosa si prova ad essere feriti proprio in quel modo. Ecco perché ci troviamo a vivere, su certe tematiche di vita, sempre lo stesso copione, ma interpretando di volta in volta personaggi diversi, a seconda che la bilancia penda dalla parte del piatto sadico o di quello masochista.
E se questo giochino sembra a volte avere delle connotazioni molto palesi, la maggior parte dei casi si tratta di una dinamica che non è così plateale ed eclatante. A volte non si tratta di comportamenti esternati, ma anche solo di situazioni che si coltivano nel proprio interiore, attraverso immagini e fantasie che ripassiamo con la mente, più e più volte, nelle quali ora siamo la vittima e ora il carnefice o, meglio, il “vendicatore” di quel primo sgarro subito che è sempre davanti ai nostri occhi. Solo che non lo vediamo. Vediamo il film di oggi che scorre sopra a quella scena, o quelle scene, di un bianco e nero della nostra prima infanzia.
Questo meccanismo è ben noto e descritto in psicologia come coazione a ripetere, ed è alimentato in ultima analisi da una dinamica che è essenzialmente energetica, cioè che risponde alle stesse leggi di una penna che cade a terra se lasciata dalla mano o dell’acqua di una cascata che cade a valle.
La domanda ora è un’altra: se sembra essere quasi “inevitabile” che io ferisca l’altro proprio nel modo in cui io sono stato ferito, perché allora non me ne rendo conto? Perché ci pensiamo sempre irreprensibili nei nostri granitici principi di coerenza a certi schemi e valori?
Risposta semplice, che chiama in causa un altro dei meccanismi principe della nostra psicologia: quello della proiezione. Vediamo molto bene negli altri ciò che siamo incapaci di vedere in noi, a causa di una macchia cieca prodotta da quel giochino di cui dicevamo sopra…vi ricordate il computer che si impalla proprio quando state salvando il file? Proprio quando state archiviando il ricordo di quel momento della vostra vita di bimbo in cui improvvisamente non avete capito come gestire il contenuto emotivo associato?
Ecco, vediamo molto bene quando l’altro ci ferisce, ma siamo totalmente ciechi verso quel nostro stesso comportamento che ferisce l’altro esattamente nel modo un cui noi non vorremmo mai essere feriti!!
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo?
Beh sì, qualcuno c’era già arrivato prima che si scomodasse la psicologia…
Morale della favola? Nessuna, se non provare ad avere umiltà e onestà con noi stessi quando ci irritiamo verso qualcuno che pensiamo ci abbia fatto del male. Perché forse stiamo solo scontando un effetto di un meccanismo che siamo noi ad attivare, anche se non ce ne accorgiamo. Chiamatelo karma se preferite, ma resta il fatto che parliamo di un meccanismo attivo qui e ora, che richiede neutra osservazione per poter essere visto e magari capito.
Tutto questo per dire che è inutile imporsi come un comandamento il non voler fare ad altri quello che vorresti non fosse fatto a te. Perché già quando lo pensiamo, è attivo in noi quel processo che tiene viva la nostra ferita e che cerca l’altro adatto per “vendicarci”. Se è vero che gli altri sono uno specchio di ciò che noi siamo, questo può essere un semplice esempio concreto per dimostrarlo.
E osserviamolo questo male che facciamo agli altri, anziché rifuggirlo per paura che ci torni indietro. Perché solo toccandolo con mano, si creano i presupposti perché il giochino si spenga, il meccanismo si smorzi…e allora non ci sarà bisogno più di alcun “comandamento”, perché la ferita sanata smetterà di premere per “scaricarsi”. E non ci sarà più alcun bisogno di negarsi un comportamento perché “io non vorrei riceverlo”. Quel comportamento decade da sé in maniera naturale. E non si teme più di fare del male all’altro, ma semplicemente si agisce nel rispetto di ciò che si è.
Forse questa frase andrebbe riletta come un sano invito ad osservare meglio quello che si fa piuttosto che un monito a non fare. Solo dopo lo scatto evolutivo di comprensione, allora ci si accorda spontaneamente al suo senso più profondo.