Era il 2002 quando per la prima volta uno psicologo, Daniel Kahneman, vinse il premio Nobel per l’economia, Questo riconoscimento scoperchiava tutte le false convinzioni relative all’ homus economicus, a quell’uomo che quando si tratta di fare calcoli e usare numeri, si pensava usasse una fredda logica matematica. Kahneman smentì tuto questo, mostrando al mondo come anche davanti alla logica impietosa dei numeri, l’uomo viene condizionato nelle scelte e nei comportamenti da fattori emotivi, per lo più inconsci ed automatici. Nasceva così tutto il filone della cosiddetta economia emotiva, finanza comportamentale o neuroeconomia.
La contabilità emotiva
Nonostante in quegli anni non mi passasse neanche per l’anticamera del cervello l’idea di esercitare la professione medica, ero però sempre attratta da come la psiche potesse condizionare la materia, o la percezione di essa, inclusa quella che sembrava essere l’inoppugnabile verità offerta dalla logica razionale.
Per farla breve, Kahneman con i suoi meritevoli studi ha dimostrato che quando entra in gioco l’emotività, i nostri processi mentali perdono “obiettività” e 1 kg di ferro non pesa come 1 kg di piume.
Nella teoria del prospetto da lui formulata, viene dimostrato sperimentalmente che quando ci troviamo a dover decidere di fronte a più opzioni possibili in condizioni di rischio e incertezza, la mente non valuta le diverse opzioni in maniera “oggettiva”, ma in base a fattori “automatici”, inconsci e che hanno a che vedere con il piano affettivo-emotivo.
La “perdita” ha un impatto psicologico più forte rispetto ai corrispondenti guadagni (effetto framing o incorniciamento), sia che si parli di economia/denaro, che di bilanci di salute/benessere e dei fattori che la mettono a rischio.
Le persone sono più motivate ad evitare delle possibili perdite piuttosto che a ottenere dei possibili equivalenti benefici.
La pandemia asiatica…
L’effetto framing è ben noto e applicato da tempo nel campo della salute pubblica per promuovere, agendo su leve automatiche, l’adozione di comportamenti “sicuri” e non a rischio, come ad esempio l’utilizzo di dispositivi di protezione.
A tal proposito, Kahneman utilizza proprio l’esempio di una ipotetica “malattia asiatica (toh?!), che semplifico rispetto ai numerosi snodi in cui si articola nel lavoro originale.
In caso di sviluppo di pandemia potenzialmente mortale, sono stati elaborati due programmi per affrontarla:
- programma A: mettendosi le dita nelle orecchie quando esci di casa e per tutto il tempo che sei per strada, si salva l’80% della popolazione.
- Programma B: mettendosi le dita nel naso quando esci di casa e per tutto il tempo che sei per strada, muore il 20% della popolazione.
In termini di rischio/beneficio, i due programmi sono assolutamente identici! Il 20% muore e l’80% si salva!
Ma il nostro premio Nobel ha dimostrato che la maggioranza delle persone tende a scegliere il programma B, perché il rischio associato alla paura di morire è una spinta decisamente più forte per adottare il comportamento di sicurezza!
Tradotto in altri termini: solide ricerche sperimentali che sono iniziate già negli anni 70 ci dicono che se voglio che una persona sia incline ad adottare “spintaneamente” un certo comportamento, devo dargli l’informazione sul versante negativo, quindi del rischio di perdita, e nel caso specifico di morte.
La cornice condiziona
la percezione del quadro!
Il modo in cui viene formulato il problema, influisce sulla percezione del rischio e quindi sulle decisioni e sui comportamenti che attueremo.
O ancora, il modo in cui viene presentata un’informazione interferisce con la sua interpretazione.
Per il nostro inconscio che guida le reazioni automatiche, il 20% di probabilità di morire non pesa quanto l’80% di probabilità di sopravvivere.
In particolare, se sul piatto della bilancia mettiamo da un lato una perdita e dall’altro un guadagno/beneficio di pari entità, la perdita nel bilancio mentale dell’individuo pesa di più, e diventa condizionante il suo comportamento.
La paura della perdita…
La perdita, il rischio di perdere la salute, sono tutte leve che poggiano su un unico fulcro: quella della paura.
La paura interferisce con i processi logici banali, come un’equazione matematica: attraverso il filtro della paura, 1 kg di ferro non pesa quanto 1 kg di piume.
Il vissuto emotivo della paura si mette sul piatto della bilancia della “perdita” creando uno squilibrio che nella realtà dei fatti non esiste. È nella contabilità emotiva dell’inidividuo che nasce la “sproporzione”, e quindi la propensione a comportarsi in un modo anziché in un altro.
Riporto dal libro Economia emotiva di Matteo Motterlini del 2006:
“L’impiego sensazionalistico o per fini opportunistici dell’informazione sui rischi per la salute, la sicurezza, la nostra economia familiare e cosi via, può facilmente speculare sulla tendenza selle nostre reazioni emotive a prevalere su analisi più ragionate. E quale fra le nostre emozioni associate al rischio ha un potere quasi incontestabile? La paura. La mucca pazza, l’influenza aviaria, l’energia nucleare, le armi di distruzione di massa, il colesterolo…appellarsi a tali minacce può essere una vera e propria strategia di persuasione, che può occasionalmente essere adottata anche per legittimare scelte pubbliche controverse, che vadano per esempio a comprimere libertà individuali in nome di una maggiore sicurezza. Una proposta di legge che introduca sulla carta d’identità la registrazione di dati biometrici (come l’impronta delle dita o l’iride) o che autorizzi le intercettazioni telefoniche di comuni cittadini semplicemente sospetti, avrà così maggiori probabilità di raccogliere consenso se prima si sarà provveduto ad alimentare la paura di attacchi terroristici. Una strategia che risulterà più efficace se avremo a disposizione nella nostra testa immagini riconducibili alle catastrofi che si intende prevenire. A prescindere dal grado di allarme, misure simili non possono che avere un maggiore consenso dopo l’11 settembre piuttosto che prima”.
Questo post appartiene alla serie “Pubblicità progresso”: ognuno faccia quello che deve, ma che sappia almeno come certi meccanismi vengono toccati (o manipolati?) nella sua testa per indirizzarlo verso una certa percezione dei fatti, e quindi verso un certo comportamento.
Alla fine della fiera, possiamo anche fare tutti la stessa cosa, ma un conto è se la faccio perchè io scelgo da libero padrone di me stesso, un conto è se la faccio perché mi hanno trattato come un cane di Pavlov, che sbava al suono di un campanello proprio come se fosse davanti a un pezzo di carne…
Amo il principio umano e stimolarne il rispetto fa parte dei compiti di chiunque si definisca umano!